sabato 3 marzo 2012

SHELLEY, BYRON E UN GOLFO DEI POETI


Percy Bisshe Shelley nasce nel Sussex nel 1792. Studente in college prestigiosi, fra cui Oxford, ne viene ben presto espulso per i suoi atteggiamenti anticonformistici, ispirati ad un “precoce” razionalismo anarchico ed insofferente. Separatosi assai giovane dalla moglie, e per non dire immediatamente, peregrina prima in Francia quindi in Svizzera convivendo con Mary, la figlia del filosofo William Godwin (1756-1836), pensatore alquanto celebre ai tempi. In Svizzera, Shelley approfondisce le relazioni con George Gordon Byron, condividendone molte idee e gli incessanti afflati rivoluzionari. Rimasto vedovo, sposa Mary (fra l’altro autrice del gotico “Frankenstein”, 1818) e con lei risiede a Venezia, Roma, Pisa, dove nuovamente lo raggiunge Byron. Sono anni letterariamente fertili, a “difesa della poesia”, meditando sulla morte di John Keats, infine abitando la luminosa Villa Magni a San Terenzo, fra Lerici e Spezia, luogo di castelli arroccati e di palazzi gentilizi. Nel luglio del 1822, navigando a vela sul suo Ariel di ritorno da Livorno, còlto da tempesta, affonda e tragicamente muore annegato nel golfo, appena trentenne. Il corpo, restituito dalle onde, dopo vari giorni viene cremato sulla spiaggia di Viareggio, i resti inumati nel cimitero inglese protestante a Roma.
Anima inquieta, pensatore d’ispirazione neoplatonica e a tratti scientista, ci lascia una produzione energica e pur tuttavia incostante. Assetato d’assoluto, Shelley sovrabbonda in misticismi che per gran parte appartengono a tutta la scuola e la tecnica romantica, organicamente ad una visione del mondo in cui l’amore per la libertà e per la creazione fantastica si fonde ad una tensione verso la bellezza e l’eguaglianza intese come destini e traguardi dell’umanità e del singolo. Nelle sue pagine, tuttavia, la natura (acque, monti, e lassù cieli, sole, costellazioni, nubi…), descritta con apparente spontaneità, talora appare in verità come “topos”, come simbolo quasi artificiale, come scorciatoia opportunistica per rappresentare il dato dell’interiorità e dell’emozione.
George Gordon Byron nasce a Londra nel 1788, da antico casato. Afflitto da una lieve deformità ad un piede, abbiente sino alla ricchezza, malinconico per natura, dopo gli studi a Cambridge avvia le prime raccolte di composizioni mordaci. Ben presto, lo “spleen” lo costringe a lunghi viaggi alla ricerca di se stesso: Portogallo, Spagna, Albania, Grecia, Oriente… Sono esperienze che confluiranno nella sua opera più notevole, “Childe Harold’s Pilgrimage”, il pellegrinaggio del giovane Aroldo, lavoro di una vita. Sposatosi nel 1815, nel 1816 è già separato, con grande scandalo a causa dei sospetti circa una sua relazione incestuosa con la sorellastra e addirittura circa i suoi rapporti omosessuali. Si rifugia in Svizzera (dove avrà una figlia – che morirà piccina - , di nome Allegra, dalla sorellastra di Mary Shelley), poi a Milano poi a Venezia poi a Ravenna… Sono nondimeno stagioni culturalmente feconde, sino a quando i contatti con la carboneria lo coinvolgono in attività insurrezionali, donde l’ennesimo spostamento prima a Pisa poi a Genova. L’amore per l’indipendenza dei popoli lo conduce infine a partire, per sposare anche la causa dei Greci contro i Turchi, ma nel 1824 muore – senza aver sostanzialmente “militato” – presso le paludi di Missolungi, còlto da febbri o forse da meningite fulminante. Cuore dolente e vulcanico, penna ora tenera ora satirica sino al burlesco, nella poesia (e nel bell’epistolario) ci ha lasciato tutto il suo impeto nomade, tutto il suo titanismo struggente e a tratti solenne. A chi voglia saperne di più, si suggerisce la lettura del meraviglioso volume di F. Prokosch, “Il manoscritto di Missolungi”, edito dalla milanese Adelphi nel 1989. (rivierawelcome.it....grazie)

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